Il Masso di Preia Buia, o Sasso di Preja Buia o Sass de Preja Buja è un monumento naturale regionale con tutta probabilità testimone della epoca preistorica; caratteristico di un complesso megalitico situato nel territorio comunale di Sesto Calende, nella provincia di Varese.
Raccolto in
una culla boschiva che dal paese si staglia verso l’alto, è comprensivo di una grossa
roccia erratica, composta di un materiale che prende il nome di “serpentino”, di un verde scintillante che si diversifica dal resto dell’area,
suggerendo la provenienza dalle Prealpi Lombarde, ricoperte di materiale la cui
consistenza è di origine morenica, ossia si sarebbe generato durante il
fenomeno della glaciazione.
La Leggenda della Chioccia di Pietra
Sulle colline che digradano verso il
Ticino, presso Sesto Calende, si vede a mezza costa un enorme sasso erratico di
serpentino, la cui forma richiama perfettamente alla memoria quella di una
chioccia nell’atto di covare i suoi pulcini. A questo sasso di ricollega una
antichissima leggenda locale, la quale per vero ci è giunta solo frammentaria
ed assai confusa, perché risale nientemeno che all’epoca romana.
Essa esalta l’amore
materno. Racconta come una volta un drago immane, che funestava quei luoghi,
venne a morte – anche adesso una paurosa fossa, presso Sesto Calende, vien
detta la fossa del drago – ed il suo corpo corrompendosi generò una nebbia
pestifera che si spandeva largamente intorno, seminando la morte. Una madre che
aveva due piccoli, scorgendo questa nube, di dispose a salvare le sue creature
e, preso il più grandicello sulle spalle, si strinse al petto il più piccolo e
s’avviò per un sentiero che saliva verso i colli. Purtroppo quell’atroce nuvola
di morte la inseguiva.
Il suo passo si faceva sempre più incerto perché il peso
era opprimente, ed il fiato incominciava a mancarle. Ciò nonostante seguitò a
salire, a salire, finché ebbe forza; poi quando, non potendone più, dovette
accasciarsi per terra con le sue creature che piangevano e si lamentavano, le protesse
ancora con tutto il suo corpo, le strinse a sé, sussurrando dolci cose che le
addormentassero, e così attese la morte che infatti poco dopo la raggiunse. Al
suo posto, gli abitanti del luogo, quando tornarono nelle loro terre, dopo la
terribile sventura, trovarono quel masso di colore verde bronzo.
Anche oggi
le giovani mammine si recano a pregare ai piedi della chioccia di pietra per
impetrare la salute dei loro bimbi.
(Tratto da Enciclopedia della Fiaba, a
cura di Fernando Palazzi, Fiabe Classiche, Mitologiche e Regionali Italiane,
quarta edizione, Casa Editrice Giuseppe Principato, Milano – Messina, 1953, p.
394)
Nella leggenda v’è reminiscenza del culto delle Matronae, vive nelle Dee di luce e
custodia del fuoco tipiche del culto celtico, di dietrologia matriarcale preindoeuropea;
che animava la Gallia Cisalpina molto prima che i romani facessero proprie
terre, Dee e usanze.
La Chioccia è la chiara presenza della Grande Madre dell’Era
della Roccia Madre; espressione coniata dalla archeologa dell’immaginario
Luisella Vèroli.
Anche la presenza del drago, che anima molte leggende locali del
Lago Maggiore quanto del Lago d’Orta, tra Piemonte e Lombardia; è un prezioso
riferimento agli animali che appartenevano alle Oscure Madri Splendenti (per parafrasare
Luciana Percovich) che furono venerate nella Vecchia Religione, la cui Eco ancora vive tra le voci della natura e delle sue entità.
Anche definite “Massi delle
Streghe” o col nome di “Trovanti”, sono enormi rocce che, a seguito del
ritirarsi dei ghiacciai, e quindi dopo essere state trasportate a fondovalle,
viaggiarono in solitudine ritrovandosi, “casualmente”, ad occupare le più
insolite posizioni sulla pianura.
Potremmo azzardare un’illazione e
considerarle come delle sorelle, nonché figlie di una più grande e saggia
Roccia Madre, “sirene” originarie di uno stesso oceano, messaggere di amore e
conoscenza che, giunte fino a noi, rivestono il ruolo di portatrici di quella
verità che nella Roccia Madre vibra al ritmo dell'incessante e salvifico
tamburo ancestrale della Dea.
Le coppelle rituali
Le coppelle, scolpite a scopo rituale in epoca preistorica, erano prerogativa dell'antico culto femminile: “lo specchio d’acqua è il
simbolo dei simboli, perché, riflettendo la luce del sole, della luna, delle
stelle, è in grado di mostrare i lati nascosti della realtà visibile a occhio
nudo”. “Riflettendo, a seconda del posizionamento, ciò che sta sopra, in basso,
dietro e avanti, lo specchio mostra ciò che non percepiamo coi cinque sensi”. “Mentre
i maschi sono in grado di vedere il proprio sesso dall’alto e lo confrontano
con quello degli altri uomini; lo specchio diventa, dunque, prerogativa
prettamente femminile”.
(Tratto dal libro Dal Cosmo alla Cosmesi, la divina
seduzione e l’arte del trucco dalla preistoria al futuro, Luisella Vèroli)
Non a caso questi enormi sassi erratici sono stati soprannominati anche “Sassi delle Streghe” e, come ricorda la Vèroli, “lo specchio è da sempre un attributo delle sacerdotesse delle religioni pre-patriarcali che lo usavano, oltre che per truccarsi ed esplorare le parti intime, come oggetto divinatorio; servendosi della luce lunare. Furono proprio le coppelle contenenti acqua ferma, fra l'altro, ad essere i primi specchi delle donne, e solo più tardi arrivarono quelli in ossidiana levigata”.
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