La Vendetta della Luna, Madonna Luna e Stella Diana; Fiaba Dolomitica e Studio su Diana Lucifera

“Bisogna sempre vigilare su di sé e non perdere mai la visione della Luce”. 
Claudia

La Fiaba

Unisce la Val di Fiemme alla Val di Fassa la catena dentata di Costabella, ed è la più arida, la più brulla, la più desolata catena dell'Italia.
Una volta non era così.
Una volta i due versanti erano illegiadriti da paesetti deliziosi: Solerosso di qua, Soledoro di là, e questi paesi erano nemici a morte.
Ogni giorno sorgevano contese tra gli abitanti dei due versanti e contese tanto futili, che tutte le valli vicine se la spassavano alle spalle di quegli stolti pastori.
L'ultima di cui si ha memoria è la contesa per la proprietà della Luna. La faccenda andò così.
Un giorno un pastore di Solerosso si trovò a pascolare il gregge in un prato della comunità, insieme con un pastore di Soledoro.
Sulle prime si guardarono in cagnesco, poi, o parlare con le pecore o morire di noia, così cominciarono a scambiare qualche parola, ed eccoli a litigare per la supremazia di un paese sull'altro.
E uno aveva i pascoli più verdi, l'altro i prati più grassi, e il primo più sole, e il secondo più ombra, e chi gerani senza uguali e chi garofani meravigliosi, e chi l'inverno più clemente e chi la primavera più gioconda. Pari, insomma, e nessuno cedeva. «Ma» disse trionfante il pastore Solerosso, puntandosi un dito sulla fronte per inchiodarvi la trovata geniale «  ciò che rende il mio paese privilegiato sopra ogni altro al mondo, è una lampada meravigliosa che, appesa la notte sopra la vetta più alta, rischiara la strada ai viandanti. Nessuno l'accende se non il Signore, e per nessuno l'accende se non per noi che siamo i suoi figli prediletti, e non vuol lasciare al buio di notte. Di giorno il sole, di notte la luna».
Il pastore di Soledoro sghignazzò: «Che ciuco sei! La luna è nostra, e ogni notte scende dentro il nostro stagno a bagnarsi, e lo illumina perché i pastori non hanno libera che la notte per questa faccenda e scende ad aiutarli».
Il compagno si oscurò, poi rise a sua volta. «Ah, ah, ah! Questa è colossale. Stasera la racconterò agli amici e saliremo a darvi la baia».
Volarono botte da orbi, e, quando furono stanchi, raccolte le pecore, scesero al loro paese verdi di bile e lividi di ammaccature. Quello della luna in vetta al monte raccontò la storia della luna che si bagnava nello stagno, quello della luna nello stagno raccontò la storia della luna in vetta al monte. E il paese a rumoreggiare, a raccogliersi in piazza, a parlottare, dal podestà al sagrestano, a gridare che era una vergogna, un tradimento della luna quello di illuminare i loro più terribili nemici. «Io propongo,» disse il podestà di Solerosso, il paese che, come ben sapete, aveva la luna sulla vetta «io propongo di salire a catturare la luna (furbo eh? Come se la luna fosse una locusta); l'appenderemo un poco più in giù, a lampione, in modo che illumini solo noi, e una scorta di pastori le monterà la guardia ogni notte per turno».
E tutti i pastori contenti, a battere le mani, a correre in casa ad armarsi di bastoni e di pertiche per accalappiare la luna quando fosse sorta.
Sapete che cosa propose il podestà di Soledoro quando ebbe radunato in piazza il suo gregge? «Figliuoli miei, la luna ha da essere nostra o di nessuno. Aspettiamo che scenda a bagnarsi nello stagno e la pescheremo fuori, poi la metteremo in gabbia perché illumini soltanto le nostre piazze e le nostre strade».
Manco a dirlo, fu un delirio di applausi e ognuno si recò a casa a munirsi di reti e di ami per la pesca notturna (quasi la luna fosse un'aragosta). Fallofore, bruchi, pipistrelli di entrambi i versanti furono quella notte destati da un grande scalpiccìo, di piedi e da un vivido occhieggiare di fiammelle. «Forse è la festa delle lucciole?» chiese un calabrone destatosi allora e facendosi riparo con le zampe. «Macché!... Le lucciole sono già partite e non fanno rumore...perché volano» disse una farfalla segnata da un teschio sul dorso». «Sarà la processione per implorare la pioggia» spiegò una locusta. E tutti insieme curiosi e trepidanti, si affacciarono tra le erbe a guardare. Era proprio una processione, la processione di tutti quanti gli abitanti di Solerosso che muovevano all'eroica impresa di catturare la luna.
La Luna, dal suo trono celeste, guardava giù anch'ella a bocca aperta la processione e la fiaccolata. Così vicina pareva una giuggiola.
A tendere la mano, paf! pareva dovesse staccarsi e cadere giù nel palmo come un frutto maturo.
«Piano piano, che non scappi!» ammoniva il podestà camminando in punta di piedi e con il cappello in mano, pronto a buttarlo sulla luna come fareste voi con un colombo o un pettirosso. Ma sì, avevano un bel salire! Quando giunsero in vetta, la luna balzò su (come era avvenuto?) su, su, nel cielo grande, e il podestà restò con il naso lungo e il suo inutile cappello in mano tra la folla esterrefatta.
Fu un attimo però; un dito puntato sulla fronte e lo sgomento cedette all'entusiasmo di un'idea maiuscola. «Figlioli miei, coraggio! Se è vero che la luna si bagna nello stagno di Soledoro, corriamo ad appostarla; ci nascondiamo nella macchia e quando si tuffa l’acciuffiamo».
Era quello un sindaco genialissimo, e il suo popolo, fiero, applaudì e lo seguì. Cammina, cammina, avevano fatto i conti senza l'oste, e l'oste in questo caso erano i pastori di Soledoro che, come sapete, radunati sulle rive dello stagno, lavoravano a tutt'uomo a buttare armi e reti nell'acqua per trarne su la luna.
Non ci voleva altro per accrescere la bile dei nuovi venuti già delusi. Appunto con la forza della loro delusione si buttarono su quelli che pescavano e cominciarono a menar botte e legnate. Le botte furono ribattute e la notte fu piena di colpi e di strida.
Madonna Luna, che aveva seguito dall'alto quella scena curiosa, smise di sferruzzare e raccolse il suo gregge di stelle da brava pastora, ammonendole che non si scostassero da lei. Poi si curvò sulla terra e suonò più volte la cornamusa, come soleva all'alba e al tramonto per radunare il gregge. Ma sì! I pastori erano così intenti a picchiarsi che non udivano il suo dolce richiamo. Allora la Luna chiamò la Stella Diana e le disse: «Figliola mia, scendi un po' tu tra quei forsennati a vedere che cosa avviene, e raccogli notizie, ma non accostarti troppo alla terra e sii cauta».
La Stella Diana raccolse la vestina d'argento e calò giù, contenta dell'incarico, librandosi a mezz'aria sul campo di battaglia per prudenza, e cominciò a chiamare: «Pss! Pss! Ohè, quel signore? Podestà! Signor Podestà!».
Niente! Chi udiva in quel pandemonio la sua vocina? Invece altre voci si innalzavano dalla terra verso il cielo e quelle voci dicevano: «Ah, voi credete di tenervi la luna?»  «La luna è nostra! iddio l'ha fatta sorgere per Solerosso, perché illumini la piazza di Solerosso ». «Invece illuminerà soltanto le strade di Soledoro; pescala Matteo!» «Prendila, Fidenzio».
La Stella Diana, che prima aveva stentato a raccapezzarsi, cominciò a capire, a sbalordire, a ridere, e ridendo caprioleggiò verso la Luna. E mentre il suo ridere perlato si propagava a tutto il cielo, ci fu una gamma di risate. «Ah, Madonna Luna!» disse come le fu dinnanzi.  «Sapeste che buffa contesa!»  e rideva, premendosi le manine sui fianchi, mentre le altre stelle, per contagio, si abbandonavano a una irrefrenabile allegria. E raccontò l'episodio.
Madonna Luna, però, non rise; al contrario si incupì e si chiuse la faccia tra le mani.
Le stellucce la guardarono confuse e sgomente. «Perché non ridete, madonna?» osò chiederle la Stella Diana. E Madonna Luna rispose, sospirando: «Perché penso all'egoismo degli uomini».  «Ognuno vorrebbe per sé, a danno degli altri, le buone cose create per tutti da Dio: per l'erba e per l'insetto, per la belva e per l'uomo. Ma questi cattivi e sciocchi pastori avranno il castigo che si meritano ». 
E si ritirò sdegnata, seguita con mestizia dalle sue pecorelle.

Ecco perché la catena dentata di Costabella è oggi arida e brulla come una pecora mal tosata; poiché nessun paese fiorisce tra i suoi pendii; perché neppure gli uccelli di rapina osano fabbricarvi il nido: perché le notti lassù sono estremamente paurose da quando la Luna, disgustata, sorvola veloce quelle vette, non penetra dentro le sue valli e non scende più a bagnarsi nei suoi stagni.

La Luna appesa in cielo e La Luna nello Stagno

Nel leggere la fiaba emerge una immagine di specchio: la Luna si rispecchia, si guarda, osserva se stessa e medita. Da entrambe le postazioni, ad ogni modo, la Luna è una sola, vivida e luminosa, come la verità. La radice etimologica stessa di "una ricorda quella di luce, nonché deriva dall'etimo latino lux, pertanto, la Luna è per sua stessa natura elargitrice di luce, e tutto ciò che illumina, per diretta conseguenza, è specchio di Lei e al contempo in Lei si specchia. Questo, oltre che essere un chiaro esempio di macrocosmo (in questo caso il cielo) che si riflette nel microcosmo (lo stagno); riproducendo come accade nella massima alchemica attribuita dagli studiosi ad Ermete Trismegisto “come sopra così sotto”. La fiaba è capace di trasportarci in quei regni dell'inconscio nei quali spesso abbiamo il terrore di addentrarci. Leggendola, lasciamo che le sue mani di luce si immergano nelle parti irrisolte di noi, donandoci cura, sostengo ma, soprattutto, soluzione ai conflitti: la fiaba lunare è alessifarmaco. La Luna della fiaba ci insegna che quanto accade nel cielo, nonché a livello cosmico, accade in egual misura dentro di noi, che ne siamo manifestazione e riflesso; mai veramente separati da alcunché, responsabili di ciò che ci accade quanto lo è l'altro o altra; ed è perciò che non possiamo in alcun modo considerare ed affrontare gli avvenimenti, i litigi, le discordie che attraversano i crocicchi della nostra vita, prescindendo da ciò che accade nel mondo altro; quando altro è altrove ma anche nell'altro, nell'altra. Così come il mondo si specchia in noi, coì noi ci specchiamo nel mondo: nulla di ciò che accade là fuori non riguarda anche noi stesse o noi stessi e tutto ciò che “subiamo” è in qualche modo riflesso di ciò che stiamo contribuendo a creare. Coloro che hanno scelto di “servire” la Luna, e farsene portavoce; datrici del suo arcano messaggio, hanno responsabilità rispetto a ciò che si manifesta in quello specchio.

L'avidità umana

La parola avidità deriva probabilmente dal sanscrito vid, che significa vedere come estensione di sapere, così come era inteso dalle civiltà arcaiche, ossia l'atto di sperimentare direttamente. La parola vid, preceduta dal prefisso a-, indica pertanto chi non può vedere e non può sapere. Una persona avida, perciò, è una persona cieca, nonché incapace di andare oltre il proprio ristretto orizzonte fatto solo in apparenza (1); eretto su un punto di vista che rivela un solo volto di quello specchio; che pretende di conoscere ciò che non conosce. Ma il mondo è più grande del vostro salotto e molto meglio arredato (10). Allora si osserva il mondo, là fuori, e si accusa questo o quello di aver rubato la Luna.  Mi piace pensare che ognuna abbia la "propria luna", nonché il proprio sole, la propria «Stella Diana» che brilla ed irradia la sua luce peculiarmente, «da dentro». Focalizzandosi su una luce che non è propria, si rischia di perdere la abilità, pura e e più vicina all'anima, di sentire il canto di quella Luna e di quel Sole che sono propri, come i pastori della leggenda che, ignari del richiamo musicale di Madonna Luna, continuarono imperterriti ad azzuffarsi, finendo per perderne la luce tutti quanti. Nessuna/o può incedere sul cammino al posto nostro, né nessuna/o può appropriarsi di ciò che quelle mani invisibili hanno posto sul nostro sentiero e che solo a noi è destinato: ogni percorso è per sua stessa natura unico ed esemplare, e, come cita il monito più intimo de Lo Scrigno di Luce, da me scritto: la vera magia, è quella che non si sfoggia di se stessa né si atteggia o si arroga alcunché, tantomeno il diritto o l'autorità, presunta; di comprendere o giudicare il sentiero altrui; che è perlopiù nascosto, al di là delle forme alle quali ci è dato accesso. Sia visto dono in una luce che ne attirano e rispecchiano altre; meravigliose e dorate stelle luminose, nelle quali potersi amorevolmente e finalmente rispecchiare; o si abbia riguardo che la luce che sono o seguono le altre, talvolta non ha proprio nulla a che fare con sé, ma è semplicemente il riflesso di qualcosa che da sempre vive dentro di loro e che non può essere tradito. Ciò che non sappiamo su una questione, spesso, è il dettaglio che fa la differenza. Nella fiaba emerge il modello competitivo-patriarcale (3) che sovente scende in campo senza che nemmeno ce ne si accorga.

Madonna Luna e Stella Diana, sulle Tracce delle Dee di Luce

Si possono identificare, nelle due raffigurazioni femminili che emergono dalla leggenda dolomitica; echi di una antica deità lunare, del regno celeste e non solo. Diana, equivalente romana della Dea greca Artemide, era una Dea della Luce, delle montagne e dei boschi, custode degli animali, delle fonti e delle sorgenti; e, con tutta probabilità, in origine, anche una Dea del Sole preindoeuropea (4), ed è per questo che, nel racconto, emerge come «stella sole», nonché, secondo i fratelli Manciocco, figura alla base della Befana, reminiscenza della grande signora della natura venerata sin dalla preistoria e delineatasi in epoca neolitica. Diana reca l’epiteto di “lucifera”, comprensiva dell'aspetto solare e lunare; e identificava la luce del giorno, nonché la luce che filtra tra i rami nei boschetti (8), lambendo tutto ciò che sfiora con i suoi caldi raggi. Diana è anche una forma della proto-celtica Belisama, o Belisma – di cui sono sopravvissute tracce di culto e un Tempio nell'area prealpina ove la stessa Diana ed anche “Berchta la brillante”, per sincretismo ed aferesi diventata Befana, hanno ricevuto venerazione – dal protoindoeuropeo bel, che significa luce. Successivamente, la figura di Belisama, è stata assimilata dai romani, prova tracce di culto nelle zone della Gallia – precedentemente occupate dai celti – a Minerva (9), nonché volto romanizzato della Dea Celtica Brigid(12), custode, trina, del fuoco sacro e, pertanto, della luce stessa. L'etimologia del nome Diana, in effetti, deriva dalla forma omonima latina Diàna, che sta al sanscrito Divàna, dalla radice Div che significa splendere, brillare, nonché dal latino Deus, Dio; ed ha il senso di luminosa, affine al significato di Lucifero (5), al quale la degenerazione cristiana l'ha attribuita; anche derubandola del suo attributo di Stella portatrice di Luce.

Questa Dea preinduoeuropea divenne come Herodiade/Diana la Dea delle Streghe in clandestinità, che il Canon Episcopi del decimo secolo condannava in quanto Dea dei Pagani che cavalcavano le scope in suo onore, per riunirsi al Sabba (6). Come è noto, e come i portali di ricerca Lo Scrigno di Luce e Sulle Tracce della Dea Madre hanno posto in luce spesse volte, “Lucifero”, dal latino lucifer, composto di lux – luce – e ferre – portare – il famigerato angelo caduto che la mitologia cristiana ha associato a Satana; già divinità romana, nonché assimilabile al greco Eosforo, associate al pianeta Venere così come l’Adone semitico, dio delle cose, “ne sposava la stella”, la Madre Celeste dei Semiti invero Astarte; altri non potrebbe essere che la degenerazione del volto preindoeuropeo delle Dee di Luce sopraddette, la cui origine si perde nella notte dei tempi: Lucina candelifera, Lucia, il cui culto è ben precedente a quello attribuito dal sincretismo con la santa siracusana ed è, secondo i nostri studi, con tutta probabilità connesso alla figura della Erodiade/Diana di dietrologia forse etrusca, e protagonista del culto della luce e della gioiosa danza selvatica delle prime sacerdotesse della Europa Antica che veneravano la Grande Madre nella sua forma lunare triplice, ma anche nel suo aspetto solare – di cui Diana è portatrice, ed è per questo che nel mito illustrato nel Vangelo di Leland sarebbe sposa incestuosa di Lucifero, col quale darebbe alla luce la figlia Aradia, semidea medievale vendicatrice delle streghe – dato che la dicotomia e consecutiva scissione dei suoi aspetti in maschile e femminile è un retaggio delle mitologie indoeuropee, che hanno privato le dee – così le donne – dei loro attributi primigeni; spostando l’attenzione dal culto ciclico e pacifico della Grande Madre alle bellicose e prepotenti divinità solari ad appannaggio maschile: lo stesso Giano, è una mascolinizzazione di Diana. “Macrobio (390-430 circa) ci dice che Giano è anche detto Gemino, perché come il Sole esso sarebbe padrone “dell’una e dell’altra” parte del cielo: interessante che, la nostra Diana preindoeuropea, che peraltro potrebbe sussistere nel volto romanizzato delle Matres/Matronae di origine celtica, fosse proprio, fra le altre, una dea della luce e della vegetazione, legata quindi a un simbolismo solare. Inoltre, in latino, porta si dice “juana”, dal sanscrito “jana”, da cui Diana, Giana, “Domus de Janas”. “Juanua coeli” era infatti un epiteto delle dee, poi passato alle litanie della Madonna (14, Cfr. p. 57).  La stessa Giovanna d'Arco, stando ai documenti riportati da M. Murray ne Le Streghe nell'Europa Occidentale, pare sia stata una seguace del culto di Diana, e per questo venne arsa come idolatra, apostata, eretica e recidiva. Il nome Diana, però, suggerì la studiosa britannica Doreen Valiente – oltre che essere il nome stesso della Luna deificata (5) – è assimilabile anche alla parole celtiche dianna e diona, che stavano a significare divina, brillante (7). Si pensi che fino al quinto secolo i romani della Gallia considerarono Diana come una loro divinità principale (4): questo non deve sorprenderci, poiché sia nei territori della Gallia Transalpina che in quelli della Gallia Cisalpina, era forte l'eco delle originarie Madri Splendenti, Luminose, definite col termine di Matronae – dalla radice latina mater, che significa madre. Le stesse – che erano antiche dee conseguentemente assimilate al culto romano –  erano, esattamente come Diana, protettrici dei boschi e delle fonti d'acqua, oltre che essere nutrici, vere e proprie incarnazioni del principio di fertilità selvatica e primigenia; nonchè originarie Madri Divine, anche connesse od addirittura assimilabili alle Dísir germaniche venerate nelle Dodici Notti d'Inverno; che venivano raffigurate nell'atto di danzare tenendosi per mano, e questo non può che far pensare ad antichissime triadi di Dee che filano e intessono il destino, similmente alle Parche greche e/o le Norne della mitologia norrena. La stessa Diana incarnava, di fatto, una Dea trina, assimilabile alla triade greca Artemide/Selene/Ecate, e che, del resto, ci ricorda l'archetipo di triplice dea proprio al sostrato mitico della Antica Europa delle sacerdotesse, antenate delle streghe. Si pensi alla stessa Dea Brigid sopra citata, che nella tradizione celtica tipica delle Isole Britanniche e delle due Gallie, incarnava Ella stessa la triplice Dea, spesso raffigurata a tre teste nelle arti e nelle letterature celtiche nelle quali, peraltro, viene riportata anche come Madre col bambino e con un cesto di frutta (cornucopia) – simbolo di abbondanza e prosperità(11) –  a ricordarci, che le splendide madonne col bambino, in particolare le Madonne del Latte, della Neve, e in generale le Madonne campestri, altro non sono che un volto di Lei, della Dea, dell'antica nutrice luminosa, “Stella dei viandanti” sul sentiero della Vecchia Religione.

 *****

Bibliografia e Sitografia 

(1) Etimologia del termine avidità tratta dal libro di Mario Negri, All'Origine delle Parole, Edizioni della Terra di Mezzo
(2) Per l'approfondimento delle leggi alchemiche di Ermete Trismegisto, complessa figura associata ad Hermes/Mercurio, nota anche per incarnare l'essenza stessa del Dio egiziano Thot, si consiglia il Corpus Hermeticum a cura della studiosa Valeria Schiavone
(3) La parola patriarcato deriva dal termine patriàrca che, a sua volta, deriva etimologicamente dalla forma greca  Patriàrches - www.etimo.it -  significa legge del padre ed ha il profondo significato di comandare, essere cioè capostipite indiscusso di una famiglia, di un gruppo sociale, o di un nucleo circoscritto. Il patriarcato è una forma di governo e/o approccio nei confronti dell'altro che è venuto a delinearsi in modo violento attraverso le epoche, sostituendo, in Europa, e di conseguenza anche nel resto del mondo, un modello socio-comportamentale – tipico delle indigene Società Matriarcali arcaiche – che erano fondate sull'amore, sulla pace, sulla condivisione, e sulla risoluzione pacifica dei conflitti. Tale sistema di governo e di comportamento sociale, portato in Europa e nel resto del mondo soprattutto e irreversibilmente durante le ondate di invasione indoeuropee, e legato, con tutta probabilità, all'introduzione del ferro e quindi della forgiatura delle armi; ci è stato talmente tanto inculcato in famiglia, ma anche a scuola sin dalla più tenera età; che spesso la sua mano invisibile preme sulle menti anche di tutte/i coloro che credono di esserne immuni, professandosi anime pure e amorevoli pur continuando a vivere il confronto con le altre e con gli altri in maniera competitiva e violenta. Io stessa, spesso, sono caduta in questo tranello. Per un approfondimento dell'argomento, e per scoprire la meravigliosa verità delle Antiche Società Matriarcali Preindoeuropee, si consiglia Le Dee e gli Dei dell'Antica Europa della celebre archeologa lituana Marija Gimbutas.
(4) The Inner Mysteries, di Janet Farrar & Gavin Bone pp. 229-230
(5) Dizionario Etimologico Online
(7) An ABC of Witchcraft Past and Present, Doreen Valiente p. 89
(8) Wikipedia
(9) Wikipedia
(10) Citazione di Marco, The Queen Father Platti-Newey
(11) www.acam.it
(12) Per un approfondimento sulle Matronae, sul loro collegamento alla Dea Diana e ad attributi boschivi delle stesse si consigliano l'articolo Dee che danzano, Le Matronae di Angera e le Altre, di cui vi lascio il Link e il testo Tracce Celtiche di Mario Fulvio Barozzi, p. 109 Angera, La Danza delle Fate
(13) In merito si consiglia Milano, Il Tempio della Dea, p. 141 in Tracce Celtiche, Marco Fulvio Barozzi.
(14)  Dal Cosmo alla Cosmesi, La Divina Seduzione e l'Arte del Trucco dalla Preistoria al Futuro, Luisella Vèroli, Iacobelli Editore, p. 57

Note

La cima montuosa di Costabella (2765 metri), si trova nella zona del Passo San Pellegrino nel territorio del comune di Moena, nella provincia autonoma di Trento, in Trentino-Alto Adige, situato in Val di Fassa, sul confine con la Val di Fiemme.

La Fiaba qui riportata è stata tratta da Fiabe e leggende delle Dolomiti, Giunti Editore, Un Grande classico nella sua opera completa, a cura di Pina Ballario (1899 - 1971)

Crediti fotografia: Pinterest di artista ignoto/a

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