ESPLORAZIONI DI RICERCA
Introduzione e contatti fra dee norrene, celtiche e preromane
Sulla didascalia di
una ara dedicata alle Matronae databile intorno al I sec. d.C.; presso
il Museo della Canonica di Novara, si trova conferma di ciò che, negli
ultimi sette anni di studi, ho compreso e approfondito; trovando qui come
in altri Musei e pievi che ospitano testimonianze del culto delle Matronae, un
meraviglioso riflesso delle mie intuizioni: “l’iscrizione accomuna Diana
alle Matronae, caratteristiche divinità silvestri di origine celtica: questa
compresenza non esclude che sotto il nome di Diana si celasse una divinità
locale, e anch’essa legata all’ambiente rurale e boschivo, che i romani
inserirono nel loro pantheon ufficiale dopo averla assimilata a Diana(1)”.
Ci tengo a precisare, a ogni modo, che non solo Diana ha preso il posto di una
presenza più antica, ma è ella stessa una Dea preromana di luce, anche
conosciuta come “stella” in alcune fiabe dolomitiche e affonda le
radici, forse, nella etrusca Tana; nondimeno Erodiade/Diana potrebbe
essere uno dei volti della Berchta, la brillante strega alpina che si
cela dietro alla veste della meglio conosciuta “Befana”, figura folclorica già oggetto
di culto nella preistoria europea; ed assimilabile secondo l'ipotesi più
avvallata alla dea della terra protogermanica Nerthus o Hertha;
ovverosia un volto “pre-eddico” – mi si passi il termine – della filatrice
Frigg; che ab origine costituiva una dea triplice insieme a Freya
(proveniente dalla Frigia, a Nord della penisola Anatolica, la vera
collocazione della mitica Asgard da cui molti dèi Germani sono “usciti”) e Skaði.
Da ciò si potrebbe persino evincere che la trinità lunare attribuita a Diana,
corrisponda alla stessa trinità concepita in area germanica, ovvero al “culto
germanico della Matrona”, a cui la Notte delle Madri, che cade tra
il 24 e il 25 Dicembre e riguardava anche le “notti d'inverno”, le “Vetrnaetr”
che forse erano anche attribuite alle “Dísir”, le custodi della famiglia e della
stirpe; era con tutta probabilità titolato; e che si celi proprio nello
studio di Diana quello che è il volto della originaria Vecchia Religione “delle
streghe” illustrata da Margaret Murray nel saggio intitolato Le Streghe
nell'Europa Occidentale. Diana era una Dea lucifera, forse assimilabile
anche alla proto-celtica Belisama o Belisma dal protoindoeuropeo
“bel”, che significa luce – di cui sono sopravvissute tracce di culto e un
Tempio nell'area prealpina ove, nei pressi, la stessa Diana ed anche Berchta
hanno ricevuto venerazione.
Successivamente, la
figura di Belisama è stata assimilata dai romani – prova tracce di culto nelle
zone della Gallia – a Minerva, nonché volto romanizzato della Dea
Celtica Brigid, custode, trina, del fuoco sacro e, pertanto, della luce stessa.
L'etimologia del nome Diana, in effetti, deriva dalla forma omonima latina Diàna,
che sta al sanscrito Divàna, dalla radice “Div” che significa
splendere, brillare, nonché dal latino Deus, Dio; ed ha il senso di “luminosa”
(affine al significato di Berchta, dall’alto tedesco “peraht”, “berht” o “brecht” e la parola
inglese “bright”); nonché connessa a Lucifero, al quale la degenerazione
cristiana l'ha attribuita; anche derubandola, parallelamente a un’altra deità
di luce, ovvero “Lucia candelifera”; del suo attributo di Stella portatrice del
fuoco sacro. Il fuoco – elemento della Brigid, ad esempio, affianco alla sua
dote di custodia d’acque – è un elemento celeste, materia di stelle, non
si esclude infatti un legame tra le Matronae, le dee celtiche e romane loro
associate sui cippi rinvenuti, e la Grande Antenata (ora nascosta sotto
la logora veste della Befana) che fin dal neolitico, celata sotto nomi
diversi – in area italica come altrove, ad esempio nelle terre slave e artiche –
custodiva il “fuoco celeste”, ed era la custode del focolare, che
infatti “riaccendeva” una volta l’anno dopo essersi introdotta dal condotto che
oggi chiamiamo “camino”, da cui tutt’ora si creda che scenda nell’ultima
notte delle dodici notti d’inverno, nondimeno la vigilia di Epifania, che
un tempo coincideva con il grande Capodanno che poteva avvenire a Gennaio come
nei mesi successivi, a seconda di quanto il cambio di stagione avveniva effettivamente:
gli antichi erano infatti molto più flessibili di noi, nel constatare il
momento più prospero alla “cacciata” del vecchio fuoco per invitare il nuovo
nelle loro case e nelle comunità; così, almeno, avveniva nel neolitico europeo
e italico… Herodiade/Diana, con la quale il culto delle Matronae venne “contaminandosi”,
divenne, molto tempo dopo, la Dea delle Streghe in clandestinità, forse la
antenata delle prime custodi del fuoco rimasta viva nonostante tutto; che
il Canon Episcopi nel X secolo condannava in quanto “Dea dei Pagani” che
cavalcavano le scope in suo onore, per riunirsi al Sabba con il presunto
diavolo.
Come è noto, e
come i miei portali di ricerca hanno posto in luce spesse volte, “Lucifero”, dal
latino lucifer, composto di lux – luce – e ferre – portare
– il famigerato angelo caduto che la mitologia cristiana ha associato a
Satana; già divinità romana, nonché assimilabile al greco Eosforo, attinente
al pianeta Venere così come l’Adone semitico, dio delle cose, “ne
sposava la stella”, la Madre Celeste dei Semiti invero Astarte; altri
non potrebbe essere che la degenerazione del volto preindoeuropeo delle Dee
di Luce sopraddette, la cui origine si perde nella notte dei tempi: Lucina
candelifera, Lucia, il cui culto è ben precedente a quello
attribuito dal sincretismo con la santa siracusana ed è, secondo i nostri studi,
con tutta probabilità connesso al culto della luce e della gioiosa danza
selvatica tipico delle Matronae, e delle prime sacerdotesse della Europa
Antica che veneravano la Grande Madre nella sua forma lunare triplice, ma anche
nel suo aspetto solare.
Frattanto, Diana è
anche portatrice di luce solare, nondimeno la stella per eccellenza; ed
è per questo che nel mito illustrato nel Vangelo di Leland diventa sposa
incestuosa di Lucifero, col quale avrebbe dato alla luce la figlia Aradia,
semidea medievale vendicatrice delle streghe – dato che la dicotomia e
consecutiva scissione degli aspetti in maschile e femminile, solare e lunare;
è un retaggio delle mitologie indoeuropee, che hanno privato le dee – così
le donne, che sono la loro ultima incarnazione – dei loro attributi
primigeni; spostando l’attenzione dal culto ciclico e pacifico della Grande
Madre alle bellicose e prepotenti divinità solari ad appannaggio maschile: lo
stesso Giano tricefalo, è con ogni probabilità una mascolinizzazione di Diana.
*****
Appunti di Ricerca del 2018
Le Madri Ninfe
Il culto delle Matronae
o Matres – purtroppo non identificabile in alcuna fonte di tipo letterario
– è giunto a noi soltanto grazie ad epigrafi, rilievi e statuette, collocabili
tra il I e il V sec. d.C., ma senza dubbio responsabili di un culto
rintracciabile in alcune attestazioni già nel III sec. a.C., e testimoni di un
caso cultuale di natura sororale attribuibile al II millennio a.C. (3).
Responsabili della vita, della morte, delle nascite, della predizione, e del
destino, le Matronae rappresentano lo spirito puro, arcaico e originario delle madri.
Le Antiche Matronae – dal latino, “madri” - conosciute principalmente
come “Matres” nella Gallia Transalpina (meridionale o narbonense) e in
Britannia, e più come “Matronae” nell'area Renana (la zona germanica estesa
sulle rive del fiume Reno) e nell'Italia Settentrionale (Milano, Como, Varese,
Cuneo, Novara, Verbania e Vercelli) erano e sono l'incarnazione del più
autentico e profondo sentimento sororale, nonché dispensatrici di naturalità,
amore, abbondanza, e di tutti quei doni che possono essere associati e
collegati all'antico spirito selvatico che intrecciava le donne le une alle
altre. Sulla base delle fonti iconografiche sono state paragonate, in
particolare nel contesto transalpino, alle Ninfe – in località “Val des
Nymphes”, è stata identificata l'iscrizione dell'epiteto “Matrys Nimphis” (3).
Le Madri
Nutrici, Imbolc e le Grotte Lattaie
Sia nel contesto
renano che nel contesto transalpino in generale – i cui reperti sono databili
già tra il II e I sec. a.C. – buona parte dei rilievi mostra le tre dee
all’interno di una esedra, nella quale talvolta le dame sono collocate
dentro o sotto conchiglie, o raffigurate all'interno di un ninfeo o di una grotta
(3), con un evidente richiamo ad ambienti di natura ctonia e acquatica. Non
mancano del resto, nel caso renano, animali d'accompagnamento sotterranei e di
natura notoriamente tellurica come le serpi, o dispensatrici di latte e di vita
come le pecore, e questo sottolinea a mio avviso la “coniunctio oppositorum” di
cui le Matronae sono partecipi per loro stessa natura: dispensatrici di vita ma
anche custodi della morte. Si attesta l'importanza che rivestivano nel contesto
delle nascite e del periodo dell'anno ad esse associato, Imbolc – il
primo accenno di Primavera, il tempo di Brigid, noto anche come “Oimelc”
o “Brigantia” – che letteralmente significa “nella pancia” (2), nonché la
promessa del germoglio che nasce e cresce nel liquido amniotico del grembo
materno, per poi venire allattato ai seni generosi e prosperi, contenenti il
latte, fluido magico delle donne gravide. Nella area transalpina, i pochi
luoghi di culto che sono stati individuati si collocano tutti in contesti acquatici
(3), ma anche se in area Cisalpina non si attestano altrettante prove di tali
contesti, v'è comunque da prendere in considerazione l'aspetto popolare del
culto delle grotte lattifere o grotte lattaie (3), sparse peraltro per
tutto lo stivale, e testimoni della venerazione dell'aspetto dispensatorio
della Dea. Qui, le tradizioni locali hanno a poco a poco assimilato tali grotte
e le figure che le custodivano alle Ninfe e alle Fate. Abbeverarsene in fase di
puerperio, dallo sgocciolamento d'acqua calcarea, responsabile del tipico
colore biancastro prodotto da tali grotte, avrebbe aiutato le donne ad
aumentare la montata lattea. Di fatto, ai piedi della Rocca di Angera (VA) – in
ambito cisalpino – si apre una cavità naturale che alcune leggende locali
attribuivano alle Fate, che suggerisce la presenza di un Antico Culto delle
Ninfe, e quindi ad un possibile “Antro delle Matronae”.
Le Madri
Danzanti Cisalpine e le Madri Intessitrici Transalpine
L'iconografia più
diffusa nei contesti gallici oltralpe e britannici mostra generalmente tre
figure femminili sedute, simili tra loro per età, rango e abbigliamento, con
lunghe vesti, e mantelli che talvolta velano loro il capo. Le Dee tengono fra
le mani canestre cornucopie e in generale riferimenti all'abbondanza e attrezzi
da tessitura (3). Nella Gallia Cisalpina, invece – in cui le fonti sono
documentate a partire dall'epoca giulio-claudia – i reperti rinvenuti
raffigurano principalmente una danza di donne con le mani allacciate dinnanzi
al grembo e, sebbene siano diversi gli studiosi delle epigrafi e delle
iconografie che riportano l'opinione secondo cui la differenza tra le Matres
transalpine – tra cui quelle dei cippi rinvenuti nella regione della Renania –
e la Matronae cisalpine dell'Italia Settentrionale; sia soltanto una differenza
lessicale e non sostanziale, io non mi trovo del tutto d'accordo, poiché le
Matronae nostrane possiedono la particolarità di incarnare uno specifico ed
esclusivo richiamo alla danza, e quindi al contesto gioioso e silvano. Le
nostre “madri” reggono dunque il filo della sorellanza, lo intessono, se lo
passano tra le mani per poi farlo girare in cerchio ancora ed eternamente,
filando il destino. Si pensi che la simbolica e millenaria danza raffigurata
sull' ara di Angera, sull'altare di Pallanza(VB), nonché sui vari frammenti
rinvenuti nel resto del territorio piemontese, potrebbe trovare riscontro
nell'impresa che Teseo intraprese per mezzo del salvifico filo che dispiegò per
lui la povera Arianna per aiutarlo ad attraversare il labirinto del Minotauro;
e sebbene l'ambito cisalpino sia geograficamente lontano dal Sud Italia,
sappiamo in base alle fonti citate in calce che a Ruvo di Puglia v'è una
testimonianza della medesima danza, riportata nel dipinto che decora le pareti
di una Tomba detta “delle danzatrici”, rinvenuta in loco nel 1833(3). Questo, a
dimostrazione che quello delle Matronae danzanti, è senza ombra di dubbio eco
di un culto più antico di quanto si possa immaginare, e nella cui arte
figurativa è possibile riscontrare la presenza tutt'altro che velata di un filo
conduttore che traccia una linea universale sul culto di una dea che tesse
che, “ab origine”, veniva venerata sulle nostre terre.
Le Madri
Selvatiche, Driadi e Fate Madrine
Il principale
epiteto associato alle Madri Cisalpine, è quello di “domesticae” o “dervonnae”
– termine celtico che deriva dalla forma letteraria “derv-deru” che significa quercia(3)
– la cui presenza si rileva in particolare nel rilievo dell'ara di Angera, in
cui si notano chiaramente le ghiande pendenti dall'albero che separa le prime
tre dame dalla quarta, e che ci rimanda, a mio avviso, alla figura delle Ninfe
Driadi e Amadriadi(4), testimoni del culto sacro di Demetra, dea greca a cui
erano consacrate le aree boschive, e perciò anch'esse testimoni del culto
primigenio di una dea, come nel caso delle Matronae, propria alla vegetazione e
alla crescita. Assimilate anche alle “Fatae”, ma anche alle Moire, alle Parche,
alle Tre Grazie e, ovviamente, alle rappresentazioni trine e triplici della Dea
tipiche della reminiscenza del culto lunare della Grande Madre; personalmente
ritengo che potrebbero essere associate anche alle meno note Ninfe Melìadi,
analoghe alle Norne germaniche ed immagini greche della triplice dea del
frassino (4). E' importante riportare infatti che il culto delle Matronae trova
un corrispettivo con le Norne della mitologia norrena (3) – che sono riunite ai
piedi del frassino, l’albero delle donne, trasformate, in molte fiabe e
leggende locali nelle tre fate madrine che supervisionano alla nascita e alla
definizione del destino dei nascituri. La demonizzazione del culto legato alle
Matronae/ Parcae/Fatae potrebbe essere alla base della trasformazione delle dee
stesse in streghe cattive, in figure demoniache e vendicative (3). Culti
femminili di gruppo sono peraltro molto frequenti nel mondo religioso sia del
Mediterraneo che dell’entroterra europeo, fin dalla più remota antichità. Nel
susseguirsi dei secoli, a causa dell'incontro tra culture diverse, gli aspetti
rituali di tali culti si sono mescolati e molte delle rappresentazioni
iconografiche hanno finito per sovrapporsi (3). Nondimeno le Matronae hanno
subito un simile destino.
Incisioni
Rupestri, Le Pietre delle Madri
La prima incisione
rupestre individuata dalla studiosa francese Noémie Beck (3) nel
contesto gallico oltralpe, è databile al II sec. a.C nella Gallia
Narbonense(6), e quindi pregressa rispetto alle incisioni su cippi di origine
romana, il che fa pensare all'esistenza di un culto naturale a loro dedicato in
cui ad essere oggetto di venerazione era la roccia stessa, ubicata in
ambiente naturale e incontaminato. Nella fattispecie, sulla epigrafe c’è
scritto in alfabeto greco e in lingua gallica l'epiteto “MATRΩN”, che significa
“delle madri”, e sancisce che la roccia stessa appartiene alle dee (3);
mentre il reperto più antico rinvenuto nella Cisalpina si riferisce ad una
epigrafe detta “Pietra delle Madri” emersa nelle Alpi a Nord di Torino,
rispettivamente in Val Viù.
Le Madri Boschive,
Solari Danzatrici ed Oscure Intessitrici
Assimilate in
seguito al volto di Diana – la quale, come detto, è una dea preromana
la cui etimologia trova evidenze sia nella lingua celtica che in quella etrusca
– sono dunque riconducibili alla specifica Diana Trivia (3), e a mio
avviso sulla scia della più arcaica e celtica Belisama(7). Ne incarnano gli
stessi attributi naturali, boschivi e luminosi, testimoni peraltro di un culto
femminile solare “sui generis”. Come Diana le Matronae erano protettrici
dei boschi, della vegetazione, delle rocce e delle fonti d'acqua, oltre a essere
custodi delle donne e dei bambini. Non ci sorprenda, fra le altre cose, la
vicinanza tra le Matronae e il volto di Ecate (3) e delle altre dee infere. In
esse c’è il principio “araldico” ed intessitore proprio alle Dee responsabili
dei crocicchi, nondimeno coloro che tengono le chiavi dei mondi. Non a
caso, la figura di Berchta nella mitologia alpina, ossia il corrispettivo della
Befana italica o Fata Piumetta sono ipoteticamente accostabili alle
Matronae in quanto Dee tessitrici. Il lato infero delle Matronae sembra essere
secondo gli studiosi e le studiose più prominente nelle rappresentazioni delle
Matres transalpine come quelle del contesto Renano; mentre le Matronae “autoctone”
incarnano più specificatamente una energia “dionisiaca”. Tuttavia, sull'altare
rinvenuto a Pallanza – abbastanza simile all'Ara delle Matronae di Angera
conservata al Museo archeologico di Varese – è presente sul retro dell'immagine
delle Matronae danzanti, una rappresentazione delle stesse in ipotetica “veste
sacrificale”, e dunque che richiama anche nelle Madri Cisalpine un aspetto “orrorifico”
e alchemico/trasmutativo simile a quello di Frau Holle nel folklore germanico.
Una delle ricerche correlate a cui sto lavorando concerne la Chiesa della
Madonna di Campagna ubicata anch'essa a Pallanza (VB), che ospita, oltre che
due meravigliose Madonne del Latte – testimoni del culto lattifero sopra citato
– il bassorilievo di una Madre del grano – forse una Tyche, “timoniera” del
destino (il che non stupisce, dato il contesto lacustre dove l’antico luogo di
culto è ubicato), oppure una madre del grano. Ciò mette in luce che i luoghi dove
le Matronae hanno abitato, prima di subire il processo sincretico che le ha
sostituite con le Madonne; hanno venerato le madri sia nella loro natura dispensatrice
che nei suoi aspetti distruttivi e “metamorfici”. Un'altra Dea a loro connessa
dagli studiosi del contesto transalpino è la figura della germanica o celtica “Nehalennia”(3),
protettrice dei viandanti e dei viaggiatori, per terra e per mare, e custode dei
sentieri e delle vie che conducono all'oltre mondo, timoniera - come la Tyche
da me individuata a Pallanza - del destino degli uomini. Di fatto, anche la dea
Frigg – che ab origine formava una grande madre trina con Skaði e Freya –
è quasi del tutto assimilabile a Frau Holle (nondimeno la stessa Berchta) individuata
anche nei panni della madre germanica che veniva venerata già ai tempi di un
culto preagricolo da tribù germaniche autoctone. Si tratta di Hertha o Nerthus,
dea della fertilità citata già da Tacito nella sua De origine et situ
Germanorum. Quanto al presumibile triplice aspetto delle Matronae, si pensi
alla Dea Brigid, che nella tradizione celtica tipica delle Isole Britanniche e
delle Gallie, incarnava ella stessa la triplice dea, spesso raffigurata a tre
teste nelle arti e nelle letterature, nelle quali, peraltro, viene rimembrata
anche come Madre col bambino e con un canestro di frutta – simbolo di
abbondanza e prosperità proprio alle Matronae – ed ampiamente riscontrato
in un sentire che tutt'oggi ne celebra e simboleggia la natura nella zona dove
l'altare di Pallanza è stato rinvenuto, giacché la caratteristica stradina che
ho percorso a piedi per raggiungere il reperto ubicato nella Chiesa di Santo
Stefano, era adornata da figure di madonne con canestre cornucopie ed
alcuni cesti in vimini erano graziosamente collocati dinnanzi alle abitazioni,
vicino ai campanelli; a ricordarci che, le splendide madonne col bambino e/o le
Madonne del Latte che si trovano ancora disseminate fra le chiesette di
campagna e di montagna, sparse per tutto il Nord Italia, altro non sono che la
testimonianza di una dea preesistente.
La Madri Tutrici
del Focolare
Si noti che le
Matronae – similmente a Brigid ma anche a Estia/Vesta – sono anche numi tutelari
dei focolari (3) – ruolo tipico anche dei lares romani – nonché madri
della custodia del fuoco. A prova dello stretto contatto tra le Matronae
Cisalpine e la Brigid, v'è anche il fatto che sull'altare rinvenuto a Sommariva
Bosco (CN), si presenta, sul lato breve del reperto, l’immagine della dea
Minerva, la quale, rintracciabile nel Nord Italia nel culto di Custode
delle Acque grazie alle ricerche effettuate all'interno del complesso ipogeo
del Duomo di Milano (8), è una più recente raffigurazione della Brigid stessa, con
la quale è andata con tutta probabilità a contaminarsi e fondersi.
Contaminazioni
con Mercurio
Alcuni studiosi
hanno ipotizzato e conseguentemente attestato un legame del culto delle
Matronae con il Dio Mercurio, sia in ambito transalpino che cisalpino, a causa
di alcune dediche alle Matrone e a Mercurio rinvenute a Cavallirio e a
Fontaneto d’Agogna(NO), e in base all’associazione iconografica di queste
ultime con una serie di frammenti di coppe in ceramica rinvenuti nel territorio
piemontese, lungo l’asse del Sesia, in cui la decorazione consiste in tre
figure femminili che incedono in una danza a mani intrecciate, ipoteticamente
guidate in alcuni esemplari dal dio suddetto verso un albero; che a giudicare
dalle ghiande raffigurate nell'ara delle Matronae di Angera, potrebbe essere,
come è stato detto sopra, una quercia. Tale sentiero di interpretazione,
che potremmo ipoteticamente accogliere per quanto riguarda il reperto angerese,
poiché la figura che guida la danza risulta “più irsuta” delle altre, non trova
però riscontro nell'evidenza del reperto di Pallanza, in cui ciò che si nota, è
semplicemente una differenza nella capigliatura delle donne, ma in generale v'è
una somiglianza tra tutte le figure. Presso il Museo della Canonica di Novara,
invece, c’è un cippo di marmo di Candoglia dedicato a Nettuno, databile
tra la seconda metà del I - inizio del II secolo d.C. ca., proveniente da
Varallo Pombia, trovato in anno e sito ignoti insieme ad altri rinvenuti sempre
nel novarese dedicati indistintamente a Diana, Minerva e le Matronae. A definire
un intreccio tra tutte le divinità citate v’è senz’altro il loro legame con l’acqua.
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Note e sitografia
(1) Didascalia presso Museo della Canonica di Novara, tratto dal mio diario di viaggio
(2) The Inner Mysteries di Janet Farrar e Gavin Bone, Stregoneria progressiva e connessione col divino, il significato di Imbolc, pag. 169
(3) www.academia.edu.com, Articolo a cura di Cristina Miedico, Direttrice Scientifica e Conservatrice del Civico Museo Archeologico di Angera(VA), Dee che danzano. Le Matronae di Angera e le Altre,
(4) Florario - Miti, leggende e simboli di fiori e piante - Alfredo Cattabiani, Mondadori, pag. 46
(5) Le prime rappresentazioni di triadi ornitomorfe sono databili già nel VI-V secolo a.C, mentre le prime attribuzioni umane al culto delle Matres/Matronae sono riconducibili a una fase successiva all’occupazione romana (Cfr.: 3)
(6) La Gallia Narbonense era una provincia romana geograficamente corrispondente, all'incirca, alle odierne regioni amministrative francesi di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, situate nella Francia Meridionale. Precedentemente conosciuta come Gallia Transalpina (o Gallia Meridionale), in epoca romana era chiamata anche Provincia Nostra. La eco di questo termine permane ancora nel nome dell'attuale regione francese della Provenza (Provence)
(7) Tracce Celtiche, Marco Fulvio Barozzi, Edizioni della Terra di Mezzo capitoli pag. 109 Angera. La Danza delle Fate (Cfr.: 2)
(8) Sui sotterranei del Duomo di Milano e sul culto delle acque di Minerva/Brigid Tracce Celtiche, Marco Fulvio Barozzi, Edizioni della Terra di Mezzo capitolo pag. 141 Milano. Il Tempio della Dea e www.duepassinelmistero.com
Bibliografia
Le Vie del Latte, Dalla Padania alla steppa - Piero Camporesi, Garzanti Edizioni
Carl Gustav Jung, Psicologia e Alchimia, Universale Bollati Boringhieri, cura editoriale di Maria Anna Massimello
Goddess Holle, In search of a Germanic goddess - Garden Stone, Translated by Michelle Lina Marie Hitchcock.
Crediti fotografia: Claudia Simone, Museo di Antichità di Torino. Le Matronae danzanti di Biandrate(No), Carpignano Sesia(NO) e Vercelli (VC) fine I-II sec. d.C.; rinvenute su cocci di coppe.
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