Rosaspina e Brunilde. Alle Origini di Una Valchiria Celeste

(...) “Sigrdrifa abbatté Gunnar dall’Elmo in combattimento. Ma Odino la punse con la spina del sonno per vendetta e le disse che non avrebbe mai più riportato vittoria in battaglia e che non si sarebbe sposata. — Ma io gli risposi che facevo voto di non sposare nessun uomo che potesse provare paura. Sigurdhr le si rivolse dicendo che gli insegnasse la saggezza, perché conosceva gli eventi di tutti i mondi(1, Cfr:2).

Alla base della fiaba di “Rosaspina” – del cui “motivo” del sonno e della puntura della spina è pregno tutto il folklore europeo – potrebbero esserci gli elementi più antichi riscontrabili in vecchie saghe e scritture norrene, tra cui La Saga dei Volsunghi, L’Edda in prosa di Snorri Sturluson e Il Canto dei Nibelunghi; oltre che il corredo di alcune entità preindoeuropee di origine neolitica preposte al compito del destino, della fortuna e del ciclo naturale di morte e rinascita..
Nel dettaglio, la protagonista della famigerata fiaba dei Fratelli Grimm, che conosciamo anche come La Bella Addormentata nel Bosco (Rosaspina è Dornröschen in lingua tedesca, da dorn (thorn, spina) e‎ Rose e il suffisso diminutivo “chen” (3))altri non è che una rivisitazione di una antica entità celeste della mitologia nordica. Rosaspina, che deriva i suoi tratti da Brunilde – il cui nome significa “Valchiria con l'armatura (o corazza)” (1, p. 76) – sarebbe quindi parente stretta di una valchiria:  
le valchirie sono note per fare la loro comparsa nell'Edda in prosa di Snorri Sturluson (Gilfaginning, 4 pp. 86-87), a sua volta tratte dal Grímnismál (Edda Poetica, Codex Regius), ove figurano i loro dodici nomi.
Valchiria, in tedesco “Walküre”, antico norreno “valkyrja” è “colei che sceglie i morti sul campo di battaglia” (ovvero è connessa al destino come Nornir e Dísir), da “valr”, ucciso e “kyrja”, che sceglie. Queste possono sposarsi con esseri umani o con esseri divini o semidivini, in base alla propria volontà, ma in quanto esseri celesti potrebbero provare molta sofferenza vivendo sul pianeta terra. La nostalgia per il reame altro – la Valhalla – è più forte di qualsiasi amore terreno e della attrazione data dai sensi umani(1 p. 76). La nostra protagonista, fra l’altro, porta un epiteto che è “Sigrdrifa”, ossia “che spinge alla vittoria” ed è lei stessa a trasmettere a colui che la libera dal sonno nel quale Odino l’ha gettata, la conoscenza atta a liberarla. Punita per aver donato vittoria a un guerriero che non era quello prescelto dal padre degli dèi, era infatti stata condannata a un sonno profondo..

La vicenda è narrata nella “Canzone di Sigrdrifa”, nel Canzoniere Eddico (2) (Edda Poetica, Codex Regius, 1270):

“A lungo ho dormito,
a lungo son stata nel sonno.
Lunghe sono le sventure dell’uomo!
Odino ha voluto così:
non ho potuto
spezzare le rune del torpore”.

Con il potere del nettare della bevanda che restituisce la memoria, Sigrdrifa ricordò il suo nome al suo liberatore, Sigurdhr, e disse lui che era una valchiria.
A questo punto donò all’uomo birra, rune (ovvero segreti sussurranti) consigli e promesse d’amore.

***

Dall'Edda in prosa:

(41) Poi Sigurdhr cavalcò finché giunse a una casa su un monte; là dentro dormiva una donna, vestiva elmo e corazza. Egli trasse la spada e le recise l’armatura, allora ella si destò e disse di chiamarsi Hildr, (viene chiamata Brynhildr”, ovvero Hildr dall’armatura, dalla corazza 4, p. 183) ed era una valchiria.

(…) Ella risiedeva a Hindafiall, e tutt’intorno alla sua casa c’era una fiamma ardente, ed ella aveva fatto voto solenne di prendere per marito soltanto colui che avesse osato traversare a cavallo il muro di fiamma. Così Sigurdhr e i Giúkungar – essi sono chiamati anche Niflungar – cavalcarono fin sul monte e là Gunnar avrebbe dovuto traversare a cavallo la barriera di fiamma. Egli aveva un cavallo che si chiamava Goti e questo cavallo non osò saltare nel fuoco. Allora Sigurdhr e Gunnar si scambiarono l’aspetto e anche i nomi, poiché Grani non sopportava di essere montato da altri che non fosse Sigurdhr. Così Sigurdhr montò in groppa a Grani e superò la barriera di fuoco. E la sera stessa celebrò le nozze con Brynhildr. Ma quando andarono a letto, egli sguainò la spada Gramr e la pose fra loro. E al mattino si levò e si vestì, poi diede a Brynhildr come dono di nozze l’anello d’oro che il dio Loki aveva preso ad Andvari e per ricordo le prese un altro anello. Sigurdhr salì sul suo destriero e tornò dai suoi compagni. Si scambiarono poi con Gunnar le sembianze e con Brynhildr andarono da Giúki(4).

Dopo la vicenda, Brynhildr e Gudhrún – la quale andò in sposa al vero eroe che l’aveva salvata e vi ebbe due figli – ebbero un confronto dove la prima scoprì l’inganno, ovvero di non essere stata salvata da suo marito Gunnar e che neppure l’anello che aveva ricevuto in dono fosse provenuto dal suo sposo. A quel punto istigò Gunnar e Högni a uccidere Sigurdhr, ma siccome gli avevano giurato fedeltà spinsero il loro fratello Gothormr a macchiarsene: egli lo trapassò con la spada mentre stava dormendo, ma l’eroe con la spada Gramr tagliò l’aggressore a metà. Là cadde, insieme al figlio Sigmundr, che essi uccisero e, dopo di ciò,  Brynhildr si gettò sulla spada e fu cremata con Sigurdhr. 

***

Dalla Volsunga Saga (Capitolo XX):

(…) “E così Sigurd cavalcò a lungo, fino ad arrivare a Hindfell per poi girare a sud, verso la terra dei Franchi, dinanzi lui, sulla montagna, vide una luce che sembrava un incendio, che illuminava il cielo, e quando l'ebbe raggiunta vide che vi era una fortezza, con uno stendardo in cima. Sigurd entrò nella fortezza e vide un uomo che dormiva completamente armato. Per prima cosa tolse l'elmo dalla sua testa e notò che si trattava di una donna. Aveva un usbergo, così stretto che sembrava cresciuto direttamente dalla sua pelle. Quindi tagliò l'armatura a partire dal collo, poi lungo le maniche, e sembrava che la lama stesse tagliando un semplice tessuto. Sigurd le disse che aveva dormito troppo a lungo. Lei chiese che cosa potesse avere di così potente da riuscire a tagliare l'usbergo e da strapparla al sonno. — E non è forse Sigurd Figlio di Sigmund ad essere venuto qui con l'elmo di Fafnir, portando in mano la maledizione di Fafnir? — Colui che ha compiuto questo gesto è della stirpe dei Volsunghi — rispose allora Sigurd. — E ho saputo che tu sei la figlia di un grande re, e mi è stato anche detto della tua bellezza e della sua saggezza, e sarà questa che metterò alla prova.

Brunilde disse di due re che si combattevano a vicenda. Uno si chiamava Hjalmgunnar – era vecchio, abile in guerra, e Odino gli aveva promesso la vittoria – e l'altro era chiamato Agnar o Audabrodir.

— Nella battaglia uccisi Hjalmgunnar, e per vendetta Odino mi soggiogò con la spina del sonno, dicendomi che non avrei mai più avuto la vittoria, e che dovevo sposarmi. E in risposta feci la solenne promessa di non sposare nessuno che conoscesse la paura.
— Dammi buoni consigli sulle questioni importanti — disse Sigurd.
— Tu sei sicuramente più bravo in quello — disse lei — Ma sarò felice di insegnarti, se conosco qualcosa che ti possa piacere, sulle rune o qualsiasi altra cosa e beviamo insieme e che gli Dèi ci concedano una bella giornata così che la mia saggezza possa esserti utile e portarti fama, e che tu possa ricordare ciò che ci siamo detti.

Brunilde riempì una coppa, la portò a Sigurd e gli disse:

“Sul corno le dovrai intagliare (le rune),
e sul dorso della mano,
e sull’unghia segna il Bisogno.

La coppa colma dovrai benedire
perché ti guardi da sventura
dell’aglio metti nel calice.
Allora questo ti posso promettere,
che il nettare avvelenato
mai cadrà sul tuo destino.
Sui loro palmi (delle donne gravide) devi inciderle
e stringere le loro mani
per fare la volontà delle 
Dísir(6).

Rune di ramo devi conoscere,
per curare i malati,
per saper guardare nelle ferite.
Incidile sulla corteccia
e sulle foglie degli alberi
i cui rami puntano a Est.

(…) Sul palmo che libera (furono incise)
e sul sentiero che risana.
 
Su vetro e oro
e sul buon argento,
e sul seggio della strega.

Sul seno della maga
e sull’unghia della Norna(7)
e sul becco del gufo.

Sullo scudo furono scavate
dinanzi al dio luminoso (in riferimento al Sole, con la Dea Sol alla guida del carro (5 p.51))

Tutte quelle che vi erano incise 
sono state cancellate
e mescolate al nettare più sacro
e spedite nelle vie più remote.
Ora sono dagli elfi,
alcune dagli Aesir
e dai Vanir di grande saggezza
e alcune tra gli uomini”.
(Saga dei Volsunghi, capitolo XX, pp. 50 – 52)

Nella Saga dei Volsunghi, Brunilde e Sigurd si erano dunque giurati amore (Capitolo XXI) ma al loro secondo incontro (Capitolo XXIV) Brunilde ribadisce il suo desiderio di vivere per la vocazione alla battaglia, purtuttavia lasciandosi dissuadere a giurare nuovamente il suo amore alla presenza di un anello d'oro donato dall'amante; nel Capitolo XXVII, avvenne dunque il terzo incontro, quello dell'inganno già citato nell'Edda di Snorri, dove Sigurd si finse Gunnar per poi sposare la fanciulla Gudrun, ovvero Brunilde credette di essere salvata dalle fiamme da Gunnar e lo sposò. Scoperto l'inganno, con l'aggravante che, nel frattempo, Sigurd aveva anche sposato un'altra donna, e comandata l'uccisione di Sigurd, nel Capitolo XXXI emerge che nessuno poteva comprendere come mai Brunilde piangesse per un atto che lei stessa aveva comandato, in preda a dolore e vendetta per essere stata ingannata e tradita dal suo amato Sigurd: “La cosa più dolorosa per me è che non posso avere una spada affilata da arrossare nel tuo sangue”(5 p. 68) — disse all'eroe, il quale era disposto a rinunciare a Gudrun per lei, e tentava, invano, di ottenere ancora la sua mano. Segue il finale di quella che, in tutto è per tutto, rievoca una tragedia greca, ma anche una vicenda d'amore proibito e sofferto, degna di Romeo e Giulietta:

 (...) Il corpo di Sigurd veniva sistemato secondo l'antica usanza, e una grande pira veniva eretta. E quando fu ben accesa, il corpo di Sigurd Flagello di Fafnir, fu posto in cima, insieme a quello di suo figlio di tre anni che Brunilde aveva fatto uccidere, e a quello di Guttorm. E quando la pira fu in fiamme, Brunilde andò in cima e disse alle sue ancelle di prendere l’oro che gli aveva dato. Dopodiché Brunilde moriva, e veniva arsa lì, al fianco di Sigurd, e così finivano i loro giorni (5 p. 74).

La Volsunga Saga. Note.

La Völsunga saga è stata redatta nel XIII secolo da autore ignoto ed è una interpretazione prosastica di antichi poemi come l'Edda Poetica, frammentariamente ancora reperibile nel Codex Regius, ma la parte che riguarda i primi Volsunghi conserva un mistero arcaico che è stato introiettato nelle loro opere da autori come Wagner e Tolkien(5 p. 9). (Qui si ha citato, dei dialoghi, solo i brevi tratti che sono punto-luce per la ricerca proposta dall'Antro di Luce).
La saga, si colloca tra l’Edda di Snorri, il Canzoniere eddico e, sebbene più lontano non solo dal punto di vista geografico, ma anche temporale, il Nibelungenlied, un poema composto all’inizio del Duecento nella Germania meridionale. Tra queste opere è possibile identificare un rapporto orale che le unisce: la materia nibelungica. Si tratta del ciclo di leggende tramandato oralmente in tutta l’area germanica continentale, dall’estremo sud (terra di Svevi, Bavari e Italia ostrogota) all’estremo nord scandinavo (5).

Brunilde.  La Filatrice

Oltre a essere bellissima e dotata di saggezza divina, Brunilde è anche una donna di gran carattere e presenza, che cela tratti di dee norrene quali Frigg/Freya, nondimeno un volto delle Madri di Filato e Fortuna del passato germanico e alpino e entità affini, preposte al destino (Nornir) e alla protezione della stirpe e del lignaggio (Dísir).

“Narra la storia che un giorno Sigurd cavalcasse nella foresta con i suoi falchi e i cani da caccia, e un folto gruppo di uomini che lo accompagnavano. Al suo ritorno, il falco volò fino ad un’altra torre e si posò su una finestra. Sigurd seguì il falco, e vide una bellissima donna, e sapeva che si trattava di Brunilde” (Saga dei Volsunghi, Capitolo XXIV, pp. 55-57). 

Studiando la figura di Freya, si apprende in effetti che la dea – forse a reminiscenza delle dee uccello della Europa Antica, dalla quale la sua originaria figura è provenuta, prima di infiltrarsi” nel pantheon eddico – possedeva un segreto travestimento di falco(8).

Scrive Marija Gimbutas: “La dea della morte compare nelle regioni europee come un rapace sul campo di battaglia, come per esempio l’irlandese Morrìgan o Badb(corvo), o la greca Atena (civetta). Nella mitologia norrena diventa la Valkyrja, ovverosia “colei che sceglie i caduti” o “masticatrice di cadaveri”, fanciulla guerriera che riecheggia la dea-avvoltoio dell’Europa antica. (…) Nei miti, gruppi di Valchirie compaiono anche come cigni che possono assumere fattezze di fanciulle e appartarsi al limitare di corsi d’acqua”. Marija Gimbutas, Le dee viventi, cit., p. 265; Cfr. 1 pp. 73-74

Brunilde (Capitolo XXIII della Saga) – legata, ovvero, all’arte della filatura di Frigg e delle Nornir (sua sorella appare come “Bekkhild”, ovvero colei che presiedeva all’arte della filatura) – era intenta a ricamare un tessuto d’oro, con cui intesseva le gesta di Sigurd. Nonostante il suo legame con la battaglia – che è la sola arte che in verità le interessa – Brunilde possiede anche gli altri tratti femminili della donna antica. Per questo motivo, al di sopra di tutto e perfino dell’amore dell’eroe, nella saga la donna sa di non poter andare in sposa a Sigurd, poiché la sua vocazione più alta è distante dal matrimonio. Ella, del resto, prova sentimenti umani, ma vede il futuro, sa che non lo sposerà poiché sarà un’altra, Gudrun, a farlo (Capitolo XXV).

Brunilde. Stella Ardente

Il muro di fuoco invalicabile, ovvero la fiamma ardente che nel mito circonda Brynhildr, potrebbe essere una indicazione della natura celeste della fanciulla: Brunilde arde, in alto sul monte circondata da fiamme invalicabili, incandescente, irraggiungibile a chiunque, come è la natura di una stella. In questo senso, forse l'armatura la protegge, persino dal suo stesso fuoco, letale e incontrollato.
Nella Volsunga Saga (Capitolo XXVII pp. 61 - 63) (dove viene riproposto l'inganno/scambio tra Sigurd e Gunnar del Canzoniere Eddico, e dove si scopre che Brunilde e Sigurd che si erano promessi amore sul monte ove egli la risvegliò avevano già una figlia di nome Aslaug), tale fuoco ardente faceva tremare la terra, la sua fiamma alta si ergeva fino al cielo, tantoché pochi re guerrieri vollero cavalcare verso quel “fuoco furioso”, tranne il principe Sigurd, davanti al quale il fuoco moriva esattamente come le spine si abbassavano al passaggio del principe, nella fiaba della Bella Addormentata più conosciuta..

Svefnthorn. La Spina del Sonno tra Magia e Folklore Vichingo
Con la collaborazione di Eugenio Chionaky

Nel Canzoniere Eddico come nella Saga dei Volsunghi, Brunilde cita la spina del sonno, che non è solo peculiarità che fa della vicenda di Brunilde la vera origine delle favole della Bella Addormentata, la quale cade in un sonno senza fine dopo aver toccato la spina di un fuso, ma è anche un “simbolo che caratterizza molte delle formule magiche folcloristiche di cui si ha nota anche da molto tempo dopo l’epoca vichinga; la sua forma visiva, quando descritto o raffigurato, nondimeno chiamato “Svefnthorn” (Sleep Thorn, Spina del Sonno), varia a ogni modo notevolmente da fonte a fonte”(5 p. 48). Tale oggetto, secondo mia modesta intuizione, non è solo spina, ma incanto runico, una sorta di segnatura, forse. D'altra parte, “le origini delle rune storicamente accertate (dal norreno rún,  significato antico germanico mistero, segreto, articolandosi in verbi come raunen, sussurrare) risalgono agli antichi alfabeti italici retico-veneti, derivanti a loro volta da un substrato etrusco, la cui sequenza runica originaria venne preservata in forma e significato dai popoli celtici e germanici dell'Europa centro-settentrionale” (5 p. 92). Il significato della spina del sonno, dunque, rimane avvolto dal mistero e cambia a seconda delle saghe in cui appare, svolgendo una funzione diversa a seconda di chi ne entra in contatto..

Secondo un compagno di ricerche e scrittore emergente nel settore della runologia, Eugenio Chionaky ovvero autore del libro Le Rune della Psiche(12), un glifo particolarmente legato alla spina del sonno potrebbe essere la runa Thurisaz, poiché in essa è racchiusa la parola thorn, ovvero spina (“thorr, thurs, thorn” ovvero Thorr – tuono, lampo, saetta – spina (Dorn)(9)). Niente meno, si ha conferma di quanto emerso dalla conversazione con Chionaky, ne “Il Segreto delle Rune” di Guido Von List: Thurs è la “spina della morte”, quella che Wuotan/Odino usa per indurre il sonno mortale in Brunilde, detta “la valchiria disobbediente” (La Bella Addormentata), ma opposta a questa è “la spina della vita” con cui la morte è sconfitta dalla rinascita. Questo simbolo minaccioso smussa l’arma che si oppone a colui che va in contro alla morte, attraverso un continuo rinnovamento di vita e rinascita”(9).

In Thurisaz, ovvero nella spina, c'è quindi una magia protettiva, un sistema di bando che protegge e, perché no, all'occorrenza getta in un sonno obliante persino noi stesse e noi stessi, che talvolta possiamo anche essere i nostri peggiori nemici. Nel potere della stasi, data dalla puntura della spina, possiamo ritornare a definire chi siamo, i nostri confini, la nostra vera casa. La corazza stessa di Brunilde, potrebbe essere metafora delle spine, che proteggono il femminile che l'armatura contiene.
Le parole chiave per Thurisaz – scrive Chionaky – sono corazza, difese, avversario.
Non per niente è associata a Thor, che utilizza il suo martello come un’arma. Secondo lo scrittore emergente, il guerriero (o la guerriera) partecipe di questo tipo di “guerra”, è colui – o colei, nel caso di Brunilde – il/la quale “agisce senza agire”. Brunilde, in effetti, fa del sonno la sua difesa, della immobilità la sua arma. Vuoto e oblio si nascondono nel suo ardore “di stella”, dove purtuttavia, circondata dalle fiamme, ella è inviolata, dormiente ma sveglia, nella difesa-attiva (all’apparenza ferma) della corazza-fuoco, tipica del ruolo di questa runa di protezione.

***

Rosaspina, La Fiaba Integrale di Jacob e Wilhelm Grimm, 1812-1815

Un re e una regina non riuscivano ad avere figli, ma come li desideravano! Una volta che la regina faceva il bagno, dall’acqua venne fuori un granchio e disse — Il tuo desiderio presto verrà esaudito e tu metterai al mondo una figlia. E così fu, e il re, felice per la nascita della principessa, diede una grande festa, e invitò pure le fate del regno, ma siccome aveva solo dodici piatti d’oro, ne escluse una, ché in tutto erano tredici. Le fate arrivarono, e alla fine della festa fecero i loro doni alla bambina: una le regalò la virtù, l’altra la bellezza, e via via ciascuna le donò tutto ciò che si può desiderare di più al mondo. Ma non appena l’undicesima ebbe annunciato il suo dono, ecco arrivare la tredicesima, furente per non essere stata invitata, e disse — Dal momento che non mi avete invitata, sappiate che vostra figlia allo scadere del suo quindicesimo anno si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta. I genitori rimasero terrorizzati, ma la dodicesima fata doveva ancora annunciare il suo dono, e perciò disse — Non sarà una vera morte, e la principessa cadrà per cent’anni in un sonno profondo.
Il re sperava ancora di salvare la sua cara bambina, e ordinò che tutti i fusi del regno venissero distrutti. Intanto la principessa cresceva, ed era un prodigio di bellezza. Una volta, proprio il giorno del suo quindicesimo compleanno, il re e la regina erano usciti e lei rimase tutta sola nel castello, così si mise a girarlo a suo piacimento, finché raggiunse un’alta torre. Ci si arrivava da una scala stretta e, siccome la fanciulla era curiosa, cominciò a salire fino a una porticina e nella toppa c’era una chiave gialla, lei la girò e la porta si aprì di scatto e si trovò in una stanzetta dove c’era una vecchina che filava il suo lino. La vecchina le piacque molto, e si misero a scherzare allegramente, e poi Rosaspina le chiese di provare a filare e le prese il fuso dalle mani. Ma appena la ragazza toccò il fuso, ecco che si punse e cadde in un sonno profondo.
In quel momento arrivò il re con la sua corte, e tutti cominciarono ad addormentarsi: i cavalli nelle stalle, le colombe sul tetto, i cani nel cortile e le mosche sui muri. Persino il fuoco che scoppiettava nel focolare si chetò e si mise a dormire. L’arrosto smise di rosolarsi e il cuoco lasciò andare il garzone, proprio mentre stava per tirargli i capelli, mentre la servetta fece cadere a terra la gallina che stava spennando e s’addormentò. Tutto il castello fu circondato da una boscaglia di spini che crebbe e crebbe sempre più alta, fino a nasconderlo del tutto.
Alcuni principi, che avevano sentito parlare della bella Rosaspina, provarono ad addentrarsi per liberarla, ma non riuscirono a superare gli spini, che li trattenevano come fossero dotati di mani, e fecero tutti una misera fine restando impigliati qua e là. E fu così per lunghi, lunghi anni; poi una volta, un figlio di re si avventurò per quelle lande, e un vecchio gli raccontò la storia di quel castello dietro la boscaglia di spini dove riposava una meravigliosa principessa con tutta la sua corte; a lui l’aveva raccontato suo nonno, e gli aveva detto che molti principi avevano provato ad addentrarsi, ma erano rimasti miseramente impigliati morendo tra gli spini. — La cosa non mi spaventa — disse quel figlio di re, — passerò tra gli spini e libererò la bella Rosaspina —; e così proseguì, e quando arrivò alla boscaglia di spini, trovò solo fiori che si aprivano al suo passaggio, e una volta passato, alle sue spalle si richiudevano i rovi. Giunto al castello, nel cortile vide i cavalli che dormivano e insieme a loro uno stuolo di cani da caccia, e sul tetto le colombe dormivano accoccolate con le testoline sotto le ali. E quando entrò, vide le mosche che dormivano sui muri, e lo stesso il fuoco nel focolare, e il cuoco e la servetta, e proseguendo vide
tutta la corte che dormiva, e così il re e la regina; e dappertutto c’era un grande silenzio, tanto da riuscire a sentire il suo stesso respiro, e infine arrivò all’alta torre, e li giaceva Rosaspina addormentata. Il figlio del re fu preso da tale meraviglia per la sua bellezza, che s’inchinò e la baciò, e in quel momento la ragazza si svegliò, e con lei il re e la regina, e la corte tutta e i cavalli e i cani e le colombe sul tetto, e le mosche sui muri, e il fuoco si svegliò e scoppiettando fini di cuocere le pietanze, l’arrosto riprese a rosolarsi, e il cuoco diede un ceffone al garzone, e la servetta finì di spennare la gallina.
Così celebrarono il matrimonio di Rosaspina col figlio del re, e vissero felici per tutta la vita.

La Tredicesima Fata. Riflessioni Libere e Personali

Dalla fiaba, oltre alla chiave gialla – un chiaro elemento del corredo di Frigg/Freya(8), ovvero delle dee o entità che posseggono le chiavi della soglia che separa la nostra realtà da quella “altra” – emerge l'affine Tredicesima Fata, ovvero una delle “ultime fate” rimaste vive nella nostra cultura. Se in generale si tende a considerare la fata madrina – ossia la sua versione edulcorata – come una entità benevola, è pur vero che non è sempre nella parola o nell’atto gentile, che giustizia e bene ultimi vengono perpetrati. A volte è nella oscurità, nel buio e nell’oblio – come quello che protegge Rosaspina/Brunilde – che la autentica alchimia trasformativa avviene. 
Il mito della fanciulla, e della Fata che la fa pungere con il fuso dell’arcolaio, ossia della giovane donna e dell'anziana che ciclicamente si incontrano e scambiano di ruolo, è arrossato nel sangue, come la magia runica che cela, ovvero si evince dalla fiaba di Rosaspina il tema delle stagioni, della morte e rinascita della natura, che talvolta è spina dolente, monito al proprio destino che si disvela, anche nella disgrazia. Grazie all’incontro con la Tredicesima Fata, “Rosa” può accedere alla liberazione mentale, poiché, solo dopo essere caduta in un lungo sonno rigenerativo, “può avanzare sul suo proprio filo” (12 p. 115).

“Secondo una vecchia strega dei Grigioni (ciò è confermato nel II Volume del Taschenwörterbuch der Österreischischen Volkskunde) il periodo di congiunzione dall'anno antico lunare con 354 notti, all'anno solare giuliano con 365 giorni si chiama “Dodicesimo”, e la Bercht, ovvero la Strega Perchta delle Alpi, con il suo seguito di bestie selvagge, andrebbe a cercare la gente a casa, trascinando nell'aria la corsa selvaggia. Le Dodici Notti(13) erano quindi in origine il tempo derivante dalla differenza tra l'antico anno lunare e quello solare. In questo periodo le streghe tenevano il loro antico tribunale, giudicavano gli affaristi, i contadini e altre persone che si erano rese colpevoli di una mancanza contro gli esseri umani, gli animali e la natura” (12 p. 58).

La Tredicesima Fata che appare nella fiaba, la quale incarna le entità solstiziali e natalizie di Epifania, filato e fortuna, ovvero nascosta nei tratti di queste figure folcloriche, è in linea di massima una regolatrice di conti, una giustiziera, una valchiria combattente, se vogliamo, tanto è vero che la famigerata “caccia selvaggia” attribuita a Wotan/Odino (prima ancora a Thor e al suo carro trainato dalle capre, da cui si è generata la figura stessa di Joulupukki, niente meno che il Babbo Natale finnico(14)) che avverrebbe durante le notti d'inverno, potrebbe essere stata, ab origine, la marcia spaventosa della Perchta e delle sue “Truden”, una vera e propria “cavalcata delle Valchirie”, le quali, con Perchta, la Befana o Grande Antenata neolitica che si voglia, custode del focolare, condividono il fuoco celeste e la dimora in luoghi altri, su altezze misteriose e irraggiungibili.. D’altra parte, le dodici notti dal Natale all'Epifania al termine delle quali fa visita la Befana sono notti di oracolo sul tempo e sul destino, ed è per questo che sono connesse alle già citate Dísir e Nornir e appartengono con tutta probabilità alla “energia della Tredicesima Fata”: sono notti liminali, favorevoli per interrogare il fato, per entrare in contatto con le entità sottili e di tenebra e per svolgere incantesimi di riconoscimento della “Trud”(12 pp. 17-23), in un certo senso il “doppio oscuro” che ci abita e talvolta inabissa in un sonno profondo, come quello di Rosaspina. Le Truden corrispondono altresì alle paure segrete e inspiegabili, dette anche “angustie della Trud” (12 pp. 17-23). Nel folklore tedesco anche l’Alp (al plurale Alpe o Alpen) è un essere soprannaturale simile a un vampiro che reca connotati dell'incubos. “Trud” è semplicemente un altro modo di chiamarlo, ma la parola sopraddetta pare essere una forma distorta dell’inglese Elf. Le Truden sono i “folletti scompigliatori” della Perchta e, curiosamente, il nome di un delle valchirie è assonante ed è “Thrúdhr”, che significa “donna” o “forza” (1 p. 75).
Ripropongo, allora, una riflessione passata(15), ovvero che la cosiddetta Dama Bianca del folklore germanico e alpino, possa essere un continuum di dee menzionate da Robert Graves ne “La Dea Bianca(16) – le “madri” dell’inverno preindoeuropee e le antiche madri del raccolto della Britannia e della Grecia primitive sarebbero dunque le stesse madri. Una leggenda conservata da Nennio racconta che l'originaria Britannia protostorica possa aver derivato il suo primo nome da “Albione”, con cui era nota a Plinio, da Albina “La Dea Bianca”, nonché maggiore delle sacerdotesse Danaidi. Pare che da questo legame derivino espressioni germaniche come “Elven” (donna elfo), “Alb” (elfo), e “Albdrücken” ovvero l'incubo o “demone dell'incubo” e, in definitiva, pare fosse legato alla parola alphiton ossia “farina d'orzo”. Nelle leggende e nel folklore su Frau Holle, niente meno che un altro volto della Fata o Strega Filatrice, la stessa è in grado di moltiplicare la farina e trasforma la paglia in oro(17).
Incubi della Berchta, valchirie cavalcanti, filatrici del destino (Fatae/Nornir) e le antiche madri greche e britanniche del raccolto che, dopotutto, sono reminiscenza di Iside Sochet/Sochit (epiteti che indicano il “campo di grano”); nondimeno le Matronae (che celano come visto la Diana preromana, Minerva e la Brigid/Belisama) e le Dísir (custodi della stirpe) e le varie Madonnine campestri di latte, neve e delle grazie che sono eredi di tutte loro, potrebbero essere un unicum, ovvero tutte emanazioni della stessa Grande Madre e Antenata, conosciuta fin dal neolitico e venerata nelle Notti d’Inverno volte alla invocazione della luce.
Si tratta di Colei che ha assunto molti nomi e molti volti, nel mito norreno/germanico, celtico e britannico, greco ed egizio, ma forse è sempre stata la stessa: la Madre, la Matrona, che talvolta si esprime con la voce e nelle azioni di una adiratissima Tredicesima Fata..
Spesso, “l'horrĭdus” che rifiutiamo di vedere o accogliere e che proiettiamo sugli altri e sulle altre, ci abita dentro, ed è solo nell'ascolto e nella conquista della pace con quella Tredicesima Fata dentro, che possiamo realmente progredire, diventare un po' più simili anche all'ombra che ci vive all'interno.

  Ho visto la sottomissione ovunque — disse la Tredicesima Fata alle sue sorelle — E ora è tempo di contrapporle la libertà. La Danza della Tredicesima Fata (12 p. 125)

Note, Bibliografia e Sitografia

(1) Le Divinità Femminili del Pantheon Nordico, Claudia Emanuele, Ed. La Zisa - Palermo p, 77
(2) P. Scardigli, Il Canzoniere Eddico, cit., p. 219
(3) en.wiktionary.org
(4) Skáldskaparmál, ovvero il linguaggio poetico; Snorri Sturluson, Edda, a cura di Giorgio Dolfini, Biblioteca Adelphi 61, Ed. 2017, pp. 147-149. Nota: all’interno degli Skáldskaparmál è contenuto materiale leggendario, mitico ed epico, basato su spunti linguistici e figure stilistiche tipici della poesia scaldica
(5) La Saga dei Volsunghi, Capitolo XX e XXI, Traduzione di Vidofinir 14, 2017, www.vidofinir14.com; basato sulla versione islandese del 1943-44 a cura del letterato Gudni Jonsson, manoscritto conservato nella Biblioteca Reale di Copenhagen
(6) Dísir, che al singolare, Dís, in antico norreno significa dea, sorella o donna di nobile rango. “Diverse saghe, alcuni poemi e molte kenningar (perifrasi prestabilite che sostituiscono il nome di una cosa o di una persona); accennano alle Dísir. Tali figure sembrerebbero essere principalmente legate alla fecondità. Gianna Chiesa Isnardi riferisce che in una fonte si allude al fatto che i riti in loro onore avevano luogo nelle notti d'inverno, “vetrnaetr”; ed avevano lo scopo di proteggere la stirpe. (...)Una ipotesi che è possibile fare è, forse, quella che vede le Dísir come la personificazione delle anime delle donne morte legate a vincoli familiari. La Isnardi definisce la Sippe – ovvero il concetto di tutela e crescita della stirpe – di spiriti protettori nella quale sono coinvolte, come una confraternita femminile di spiriti tutelari; in relazione soprattutto al sostantivo singolare dís, che significa proprio “sorella”. Le Dísir sono infine dee preposte al destino degli uomini e, similmente alle Valchirie, hanno il potere di scegliere chi dovrà morire”. — Le Divinità Femminili del Pantheon Nordico, Claudia Emanuele, Edizioni La Zisa, pp. 69-71. Tratto da Le Dodici Notti d'Inverno - L'Antro di Luce (2022)
(7)Le “Nornir” (fatae) – le Norne, in italiano – della mitologia norrena. Daremo dunque alcune delucidazioni utili a comprendere il contesto cosmogonico che ha ispirato la poesia: il termine Norna deriva dall'antico norreno “Norn” che significa “colei che bisbiglia un segreto”. Esse vivono presso la fonte di Urdarbrunnr, ove tessono il destino di ogni vivente.
I loro nomi – pure se non sono soltanto tre, come erroneamente si crede, ma molte di più – sono Urdhr, la vergine, che personifica la luna crescente; Verdhandi, colei che è della luna piena, la madre e Skuld, la luna calante, nonché la vecchia.
Secondo L'Oracolo dell'Indovina (una antica opera poetica nordica), furono le prime a riprodurre ed incidere le rune. Con il loro potere, e con la sola presenza, irrorano ogni giorno, con acqua e argilla, per evitare che secchi o marcisca, l'albero cosmico “Yggdrasil” – “cavallo di Yggr”, nonché “forca” o “patibolo” di Óðr/Odin dove il dio, il “totalmente altro”, immolò se stesso al sacrificio per nove giorni e nove notti per ricevere la saggezza delle rune che sono il mistero, il segreto dell'esistenza stessa.
Nell'Edda le Nornir sono le intagliatrici delle rune – i segreti sussurranti – che sono incise sulle loro unghie, con cui tessono la trama del destino, nonché dell'eternità, davanti alla quale persino gli dèi soccombono; dato che periranno nel Ragnarok, a differenza delle Nornir che sono le uniche creature della mitologia norrena ad essere incorruttibili e immortali.
L'unico elemento eterno nella cosmogonia norrena è infatti il destino, pertanto le Nornir hanno potere decisionale persino sulle divinità, che in questo senso sono alla stregua degli umani poiché dipendono dalla volontà delle Nornir, che naturalmente sono assimilabili alle parche greche, alle moire romane, e alla figura preindoeuropea celto-germanica della Dama Bianca, assimilabile per attributi e congruenze alla Grande Madre dei Vani Frigg/Freya; ciò che di più simile a una Grande Madre protoindoeuropea è rimasto della mitologia norrena. Tratto da Dita di Nornir - L'Antro di Luce(2023)
(8) Frigg e Freya, Studio sulla Regina dei Vani e degli Asi - L'Antro di Luce(2022)
(9) Il Segreto delle Rune, Guido Karl Anton List, Aga Editrice, Ed. 2017, Milano
(10) Rune della Psiche, Eugenio Chionaky, 2021, Edizioni L'Età dell'Acquario pp. 66-67
(11) Rosaspina contenuta in Jacob e Wilhelm Grimm, Tutte le Fiabe, Prima Edizione Integrale 1812 – 1815, a cura di Camilla Miglio, Illustrazioni di Fabian Negrin. Titolo originale Kinder-und Hausmärchen. Ed. 2015, Donzelli Editore, Roma, pp. 223-225
(12) Le Tredici Lune, Luisa Francia, Le Civette di Venexia, Roma-2011
(13) Le Dodici Notti d'Inverno - L'Antro di Luce(2022)
(14) Joulupukki, La Capra di Jól e le Deità del Natale preesistenti affini - L'Antro di Luce(2023)
(15) La Dama Bianca, L'Antico Culto della Luce e Le Vere Origini del Natale e dell'Epifania - L'Antro di Luce(2022)
(16) La Dea Bianca, Robert Graves, Gli Adelphi, Milano, 1992
(17) Goddess Holle, In Search of a Germanic Goddess, GardenStone, Usingen, Germany (2002-2011)

Etimologia,Walküre en.wiktionary.org

Sul significato di Fata sulla analisi profonda di questa figura, a cavallo tra Strega e Sirena, le quali pure vengono menzionate, è disponibile la ricerca intitolata Fatae, Excursus - L'Antro di Luce(2023)

Non è stata utilizzata per la stesura della ricerca, ma si consiglia ugualmente: La donna nella letteratura norrena: analisi della figura di Brunilde nella Saga dei Volsunghi -Università degli Studi di Padova Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari - Tesina di Laurea

Sigurd e Il Drago. Nota

Sigurd, re della terra degli Unni, nella Saga dei Volsunghi, è colui che uccide il drago (Capitolo XXVIII p. 65). “L’incisione di Ramsund è una delle più celebri “pietre runiche” raffiguranti le gesta di Sigurd e altri eventi narrati nella Saga dei Volsunghi. Essa è intagliata su una roccia piatta vicino a Ramsund, nel comune di Eskilstuna, Sodermanland, in Svezia”. È datata attorno al 1030 – mentre la saga è stata redatta nel XIII secolo da un autore sconosciuto – e cela il “motivo” pagano sopravvissuto nell’arte e nella religione cristiana di San Giorgio che uccide il Drago, il quale altri non potrebbe essere che Sigurd/Sigfrido, uccisore di Fafnir, ovvero l’eroe dell’Europa pagana sarebbe stato oggetto di furto da parte del Cristianesimo (6 p. 9).

Crediti immagini: (1) Pinterest di artista ignoto/a, (2) Elaborazione fotografica di Claudia Simone su immagine da artista ignoto/a, (3) Oliena Vecchia Pittura

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